Giornata della Memoria: l’incredibile testimonianza di Giovanni Tucci, sopravvissuto alla follia nazista

Domenica mattina scorsa (27 dicembre), nella sala consiliare di Palazzo Sa Giorgio, ha preso vita il viaggio della memoria del sopravvissuto Giovanni Tucci, che oggi ha 96 anni ed è un ex funzionario regionale in pensione, nonché testimone molisano della follia nazista. La sua storia, fatta di freddo, fame, paura, ma anche tanta voglia di vivere, e di perdono, ha commosso tutti i presenti.

“Chi vi parla non è stato un eroe”

Tucci ha esordito con una frase ha fatto molto riflettere i presenti in sala e che forse nessuno si aspettava: “Chi vi parla non è stato un eroe. Ero l’ultimo dei ‘soldatini’. Nello scenario della guerra ero una comparsa, uno spettatore che osservava ciò che avveniva“.

Le cattura

Del resto, il signor Giovanni, quando venne fatto prigioniero dai nazisti, era molto giovane. Nell’agosto 1943 fu spedito ad Atene insieme ad altre giovani e poco avvezze alla guerra leve. L’8 settembre fu catturato dai soldati tedeschi e deportato in Polonia. Inizialmente in un campo di concentramento, poi in miniera. Il primo giorno di prigionia compiva 20 anni.

Tucci: “Ci spogliarono dell’identità, non eravamo più persone”

Giovanni Tucci ha ricordato la sua prigionia e la vita nel lager: “Eravamo circa 30mila uomini concentrati in baracche. Ci nutrivano solo una volta al giorno con una brodaglia fatta di acqua in cui galleggiava qualche foglia di cavolo con accanto un’ombra di patata. Poi ci assegnarono dei numeri. Ci spogliarono dell’identità, non eravamo più persone, ci chiamavano “stücke” che significa ‘pezzi’ e come tali ci trattavano“.

Successivamente, il signor Giovanni venne selezionato per lavorare in miniera. “Ricordo una nicchia in cui c’era la statuina di Santa Barbara, protettrice dei minatori. Ogni galleria che attraversavamo era sempre più fredda, piccola e meno illuminata della precedente. Il lavoro era faticoso e noi eravamo giovani, spaventati ed impreparati”.

L’insopportabile mancanza del cibo

I tunnel della miniera furono la casa di Tucci per ben due anni. Durante quel periodo la cosa peggiore da sopportare fu la mancanza di cibo. “Oggi facciamo un uso improprio della parola “fame” – ha tenuto a spiegare – quando diciamo “ho fame” in realtà intendiamo “appetito”. La fame è un’altra cosa. È un tarlo che scava nel profondo e che colpisce non solo lo stomaco ma anche la psiche“.

La felicità anche nella sofferenza

Oltre al dolore, tuttavia, Tucci ha parlato anche di qualche raro ricordo di felicità, come le chiacchierate su Manzoni con un giovane ebreo e l’aver udito un accento riconoscibile, quasi familiare: un contadino di Montagano. L’uomo era analfabeta, ma desiderava scrivere alla moglie, così Giovanni si offrì di aiutarlo a scrivere una cartolina, informando la donna che il marito era insieme ad un giovane campobassano e che stava bene. Tale particolare missiva, seppe più tardi Giovanni, fu portata anche a casa di suo padre, per informarlo in merito al figlio, del quale non aveva saputo più nulla.

Il sopravvissuto Giovanni Tucci ha anche affermato: “Ricordare quei giorni per me è delicato perché mi hanno derubato dei miei 20 anni. Ma non ho rimpianti. Hanno scavato nella mia mente solchi con ricordi indelebili, belli e brutti. Ma quelli brutti per fortuna si dimenticano. Ricordo ancora oggi i volti e i nomi dei miei compagni. Se mi concentro sento ancora la loro voce”.

La fine dell’incubo

Finalmente la fine dell’incubo. “Il 27 gennaio del 1945 vidi che i cancelli erano aperti. Le sentinelle tedesche erano scappate. Ricordo di aver avuto paura. Poi però arrivarono i russi e capimmo che saremmo tornati a casa” E ha giunto: “Questa esperienza mi ha segnato nel profondo e mi ha insegnato che la guerra non la vince mai nessuno“.

A distanza di sessant’anni da questo terribile capitolo della sua vita, il signor Giovanni ha deciso di tornare in Polonia, ad Auschwitz. Una volta davanti a quel cancello che ha distrutto per molto tempo i suoi sogni, ha confessato di aver provato di nuovo paura. Tuttavia, si è inginocchiato ed ha pregato per chi non ce l’ha fatta. “Ho avuto i brividi visitando il museo, non tanto per le ciocche di capelli e per i vestiti esposti ma per la montagna di scarpe accumulate. Più di tutto per le ciabattine dei bambini che da quel giorno non hanno potuto più saltare”.

Il signor Tucci ha voluto spendere anche qualche parola in merito all’emergenza umanitaria alla quale stiamo assistendo, affermando: “Dobbiamo essere più umani e comprensivi nei confronti degli altri. L’odio non produce nulla di buono. Insegniamo dunque ai nostri figli il valore del rispetto e della tolleranza. La pace è come una piantina che va nutrita tutti i giorni con i nostri sentimenti”.

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